La filossera - il cuturun Indietro Ritorna a Elenco Racconti Avanti
Il lavoro del vignaiolo non ha subito molte novità con la meccanizzazione dell’agricoltura, perché nella vigna tanti lavori si facevano e si devono ancora fare a mano: la potatura secca, la potatura verde (scarsurè), la pulizia e il ripasso dei filari e infine la vendemmia. Solo per l’irrorazione del verderame si è messa a riposo la macchina che si portava in spalla e si è adottato l’uso del trattore che lo sparge rapidamente e uniformenente. Però questo lo fa solo chi ha molta vigna e... il trattore.
Ma ci fu un tempo in cui tutti i vigneti hanno subito una gravissima crisi, è stato il periodo in cui si è diffusa la Filossera.
All’inizio del 1900 era giunto in Europa e in Italia questo dannosissimo insetto. Esso vive, si nutre e si riproduce sulle radici della vite. La piantina colpita si ammala, ingiallisce e muore. Così la nostra viticultura era minacciata da un pericolo mortale. Ma, avendo scoperto che le viti di provenienza americana resistevano alla filossera, si corse al riparo introducendo il sistema di innestare le nostre qualità di uva su un ceppo americano, che ora si produce qui.
Ed è quello che si fa adesso. Ma in quei tempi, dover ripiantare le nostre vigne, dover sostituire tutte le viti, dover rivoltare tutte le nostre colline... che lavoro!
Ricordo quei tempi; non si parlava d’altro; si temeva anche che ci fosse chi avesse l’interesse ad infettare i terreni. Ho visto ingiallire la collina coltivata a vite, poi sgomberata completamente dalla vegetazione e poi lentamente ritornare al verde precedente. Ma non è stato così semplice come dirlo.
La terra andava rivoltata profondamente fino a raggiungere la parte sana, vergine. Bisognava fare uno scasso profondo, detto da noi “Cuturun”. Noi chiamiamo “cutura” lo spessore coltivabile della terra, 20-25 centimetri. Ma per quel trapianto era necessario andare molto profondo, intorno agli 80 centimetri. Quanta fatica! Per 3-4 anni rinunciare al prodotto, restare senza raccolto!
I primi scassi erano fatti a mano: si vangava, si puliva il solco buttando la terra da un lato; e così per tre volte con piccone‚ vanga e pala‚ facendo un solco profondo per trovare lo strato di terra immune da malattie. E così per tutta la vigna, per tutta la collina, per tutto il paese e oltre...
Le nuove viti, innestate su ceppo americano, crescevano rigogliose in quel profondo tappeto di terra smossa e sof½ce. Anzi c’era perfino chi metteva in fondo al solco delle fascine di legna.
Ora è facile, è ormai tutto risolto: si va al mercato e si comprano viti innestate, della qualità desiderata, non c’è che da scegliere... e pagare. Ma chi si è visto morire il vigneto, chi ha dovuto fare il “cuturun”, sa cosa vuol dire rifare la vigna. Lo si faceva per forza, non avendo altro lavoro per vivere, e volendo ottenere lo stesso prodotto per cui si era attrezzati. Sandro Febbraro ricorda di aver messo alla vanga una spranga più lunga, perché andasse più profondo.
Poi vennero anche aratri speciali, forniti di una grossa lama che penetrava molto nella terra, anzi credo che ci siano tuttora.
Tuttavia nella vigna il lavoro a mano è sempre molto ed è insostituibile, dalla potatura alla vendemmia. E quelli che si adattano al lavoro della vite sono sempre di meno. Si vedono infatti, con dispiacere, tanti terreni incolti, prima vigneti.
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