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Questa frase viene pronunciata
ancora oggi, accompagnandola con un sorriso malizioso; la si pronuncia con rassegnazione
ogni volta che un affare, unimpresa ha avuto un cattivo risultato. Lautore
della frase, una caratteristica figura castelnovese degli anni 1920-30, non immaginava che
un suo detto durasse tanti anni, più del lavoro che egli faceva per vivere: segare la
legna.
Aveva un nome, Achille, e anche un cognome, Martini, ma non era conosciuto che con il
soprannome di Chilotti. Alto, magro, coi capelli grigi che gli uscivano da un cappello
sformato. Parlava e agiva sempre seriamente, erano gli altri che incontrandolo erano
subito disposti a burlarsi di lui.
Era in verità un gran lavoratore; più nessuno ora fa il suo mestiere: girava da un
cortile allaltro a segare e spaccare la legna. Lho visto lavorare, solo, nel
suo monotono ritmo, facendo mucchi di legna tagliata. Unico suo coadiuvante era un residuo
di lardo per ungere la lama della sega, e lo faceva forse anche per riposarsi un paio di
minuti. Se il padrone della legna era generoso, gli metteva a disposizione una bottiglia
di vino e un bicchiere. Ma egli faceva poche pause, non lavorava a ore, come oggi, ma... a
mucchi di legna. Quello che una sega elettrica o meccanica fa in un mattino, egli lo
faceva in alcuni giorni con vera fatica delle braccia.
Aveva ereditato quel mestiere da suo padre; non ebbe mai né apprendisti, né aiutanti e
nessun altro gli faceva concorrenza.
Certo i contadini questo lavoro lo facevano e lo fanno da soli, nelle giornate di
intervallo tra un lavoro e laltro o nel tardo autunno. Ho visto una donna di
campagna andare alla catasta (teisè) e con la scure spaccarsi qualche pezzo di legno
troppo grosso e poi correre ad accendersi la stufa, ma parecchio tempo fa.
Chilotti era al servizio di quella categoria di persone che comperavano un carro di legna
e se la facevano ridurre in pezzi da uno... specialista! Povero Chilotti, era uno
specialista di poco valore, la sua specialità finì con lui.
Ma aveva anche una passione: quella di andare col suo cagnolino in cerca di tartufi; non
lo faceva per svago, certo, ma per trarne un po di profitto. Infatti portava quel
poco che trovava a Chieri, a piedi, e lo vendeva a un albergatore.
Un giorno, poveretto, promise che avrebbe portato altri tartufi, ma non ebbe la fortuna di
trovarli, così li comperò da un collega più fortunato. Ma, ahimé, li pagò dieci e a
Chieri glieli valutarono solo otto; insomma ci rimise!
Fu allora che a Castelnuovo, a quelli che lo deridevano per quel bellaffare, egli si
giustificava dicendo: «E far niente è meglio?».
Però anche questa battuta ha la sua spiegazione: per la sua mentalità era più
deplorevole colui che faceva nulla, che quello che sbagliava un contratto. Per uno
sgobbone come Chilotti, era più colpevole il poltrone che lo sfortunato.
Anche nel pregare era caratteristico: correva voce che coricandosi alla sera dicesse,
naturalmente in dialetto «Signore, il tuo asino si corica adesso».
Come preghiera non è un capolavoro, rispecchia la stranezza dellautore, ma... «E
dire niente è meglio?». E qui possiamo rispondere: assolutamente NO, perché in quella
rozza espressione si può trovare la Fede e lUmiltà.
E il Signore, che ama e predilige i semplici e gli umili, avrà certamente fatto in modo
che Chilotti, nel suo eterno riposo, si trovasse tanti mucchi di legna tagliata e tanti
tartufi a buon prezzo. |
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