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Nella memoria ho la figura di quel
vecchio cacciatore di campagna. Il suo nome non conta: può essere Tano di Lis, come
Marchin di Morialdo o Giuan Grand di Mondonio.
Il suo vestito era di velluto; si diceva che il tessuto di velluto, perché fosse di buona
qualità, bisognava comperarlo in montagna. C’erano anche sarti specialisti; il sarto
Occhiena di Capriglio aveva fama di essere il migliore, per i vestiti di cacciatore. Per
il permesso di caccia si andava in municipio e l’impiegato Peira procurava i
“papè” le carte, i documenti necessari. Favore gratuito, anzi mai richiesto e
mai ricompensato, perché si credeva che fosse tra i doveri del Comune provvedere di
licenza i cacciatori.
Allora non c’era ancora il partito che contrastasse l’attività venatoria e non
c’era quel settore di opinione pubblica che condannasse la caccia e il nostro
cacciatore spavaldo amava indossare il vestito di velluto ogni volta che veniva in paese
al giovedì e alla domenica; e dal bordo del suo cappello spuntava una piccola piuma di
pernice.
Non cacciava in territorio tanto vasto, di preferenza restava nei suoi paraggi, in cui
però conosceva tutta la selvaggina: i leprotti nati e cresciuti, la covata di starne, la
tana della volpe.
Il suo vispo e fedelissimo cane non vantava una discendenza nobile, ma figlio di cani
conosciuti come ottimi nella caccia. Non aveva un nome inglese, di solito si chiamava
Paris o Murin, se era scuro. Stava là, in fondo al cortile, accanto al pagliaio; aveva
uno spazio limitato, quanto era lungo il filo di ferro che sosteneva la sua catenella.
Faceva anche la guardia alla cascina e conosceva tutte le persone del posto; abbaiava
raramente e ovviamente solo agli estranei.
Il suo padrone gli parlava, gli diceva: mancano ancora 20 giorni, dieci, due... Ed eccoli
quel mattino prima dell’alba: il cacciatore stacca dal chiodo il suo fucile, mette in
tasca alcune cartucce, che aveva caricato lui stesso qualche sera prima con la polvere e i
pallini comperati nel negozio del maestro Marsiglia, lega Paris a una cordicella e parte.
Non tiene la strada, ma calpesta la rugiada con i suoi scarponi.
Quando gli pare che si sia fatta un po’ più di luce, slega Paris, che finalmente è
libero, non piange più; ora corre, quasi vola... verso un odore ben conosciuto ed
eccitante, quello lasciato dalla lepre.
E io mi son sempre chiesto per quale misterioso motivo di natura il cane segugio conosca e
gridi per istinto ereditato imbattendosi nell’odore di lepre e solo in quello.
Normalmente un cucciolo di tre mesi, portato per la prima volta in campagna, trascura gli
odori di animali passati in quel luogo, fagiani, topi, volpe, corvi... si sofferma solo se
si imbatte nell’odore di lepre. Allora soltanto si eccita e grida e ne distingue il
percorso. Perché? Così piccolo ha già scoperto il suo istinto ereditato!
La sua coda è eloquente, con essa parla sempre a chi lo sa intendere. Ora ecco, Paris è
nella valle, insiste a fiutare, dimena la coda in movimenti fitti, senti come grida.
Il padrone lo capisce: lì questa notte c’è stata la lepre al pascolo... (Il seguito
non lo descrivo, se lo immaginano i cacciatori.)
E il cacciatore infila la lepre nella grande tasca posteriore, fa in modo che da una parte
spuntino le orecchie e dall’altra le zampe, lega Paris alla cordicella e torna a
casa. La sua felicità è contenuta, ma non quella del cane: è felicissimo, saltella per
leccare ora la preda, ora il padrone.
E con le poche lepri della valletta e del bosco è passata felicemente l’annata
venatoria con soddisfazione del cacciatore e del cane, con avventure da raccontare per
molti anni, sempre con nuovi e diversi particolari.
Ora no, oggi la caccia è molto cambiata: se c’è qualche lepre su una collina, lo
sanno in dieci paesi. Nel giorno dell’apertura con 50 macchine arrivano 100
cacciatori con 100 cani. Le dieci lepri non hanno scampo. Al termine della giornata 10
cacciatori sono soddisfatti, gli altri novanta imprecano: “Non c’è niente. Con
tutto quello che ho pagato!” |
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