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Chi ricorda ancora ormai i bachi da
seta, il loro allevamento e la vendita dei bozzoli? Da almeno 50 anni non se ne parla
più; restano soltanto alcuni gelsi (mur), le cui foglie erano il loro unico nutrimento.
Ma se si parla dei bachi, bisogna rivolgere un inno alle nostre massaie: erano esse che se
ne prendevano la cura totale. E quanto lavoro! Sì, perché questo era un lavoro aggiunto
a quello che facevano normalmente in casa e in campagna; infatti lo si faceva a stagione
agricola avanzata, quando naturalmente i gelsi avevano il fogliame in pieno sviluppo.
Era usanza (ed era anche giusto) che il ricavato fosse a disposizione di esse. Le quali se
avevano un sogno, dicevano sospirando: «
Se mi va bene la bigatà
» (da bigat = baco). E, se una signora o signorina indossava un vestito nuovo, le
amiche commentavano con un po di malizia: «Le è andata bene la bigatà!».
Dunque ecco il ciclo dellallevamento: la massaia comperava nella drogheria Marsiglia
unoncia, due
di seme, a seconda della capacità del locale destinato
alluso. Loncia era un misurino somigliante ad un ditale. I semi erano
piccolissimi ovini-granellini che si collocavano in una retina. Perché schiudessero, si
dovevano tenere qualche giorno ad un certo grado di calore, per esempio al contatto con il
tepore del corpo umano. Quando schiudevano i piccolissimi bruchi si disponevano sulle
foglie disposte su ripiani, sempre più larghi e numerosi man mano che i bachi crescevano.
Al massimo della crescita erano lunghi grossi come un dito.
Ma quante foglie avevano mangiato e quanti sacchi ne aveva raccolto dagli alberi di gelso
la brava massaia! I bachi che del resto non erano immuni da malattie, nella loro crescita
dormivano, cioè facevano un podi sosta alcune volte; quando avevamo dormito
della quarta (è diventato un detto comune attributo a persona poco sveglia)
salivano tra i fuscelli disposti con cura su di loro, e con movimento continuo del loro
corpo flessibile si richiudevano completamente con un filo sottilissimo della seta che
usciva dalla loro bocca. Ora i bachi erano in una prigione di seta e su quei ripiani di
canna, invece dei bachi, si vedevano tanti bozzoli, (a Castelnuovo detti cuchet). Erano
ovini di seta grandi come noci.
La massaia li puliva per bene, ne riempiva un gran cestone ricoperto di un bel panno
bianco e li portava in piazza Don Bosco, ove ogni mattina cera un gran mercato,
mettendosi allineata con le altre donne.
Il compratore locale era quasi sempre Giacu Marchisio, agente della filatura Fassino di
Valfenera, passava in rassegna quella meravigliosa ostentazione di bozzoli e ne fissava il
prezzo.
Lunico aiuto del marito era il trasporto con le mucche del faticato prodotto. E la
laboriosa donnetta, incassato il sudato guadagno, riordinava lattrezzatura servita
per la sua annuale fatica.
Lallevamento dei bachi e perciò tramandato alla memoria come un lavoro
straordinario, anzi un vero sacrificio fatto dalle donne di campagna per una cara e
particolare necessità che tenevano segreta in cuore: un vestito, un mobile di casa, un
debito da saldare
E finiamo con laneddoto. Ricordo che nel 1930 un insegnante, incaricato della
materia pratica nella scuola di Avviamento al lavoro, volle fare con la sua
classe lesperimento dellallevamento dei bachi; il lavoro gli era noto, perché
laveva visto fare dalla propria mamma. Trovò un locale libero non lontano dalla
scuola, e lo ebbe in concessione gratuita, come i gelsi di Pinin Filippello. Lavorò con
gli alunni fino alla raccolta dei bozzoli. Se ne fecero due miriae in piazza
al mercato il compratore glieli pagò a prezzo di favore con la bella somma di 20 lire.
Con quella stessa cifra insegnante e scolaresca noleggiarono un pullman e fecero in
allegria la gita scolastica fino a Superga.
Avevano fatto una buona bigatà! Altri tempi
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