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C’era allora l’usanza di tenere in una gabbietta un uccellino canterino e nella stagione la si teneva fuori all’aperto.
Al mattino si poteva sentire l’uccellino del barbiere Cino spiegare il suo bel canto; gli rispondeva con il fischio il merlo del sarto Vigin Bargetto; ma l’usignolo di madama Ciocca, col suo gorgheggio, superava tutti in armonia. Si diceva che solo lei fosse capace di allevare e mantenere un usignolo.
E quanti cardellini c’erano allora in campagna e intorno al paese! Cantavano e nidificavano sui castani del viale “la Lea” e i ragazzi cercavano i loro nidi; c’era anche chi riusciva ad allevare i cardellini in gabbia. Erano bellissimi con la testina rossa e nera e sapevano pure cantare.
Ora di tutti questi uccelletti non c’è più traccia. Dicono che sia anche vietato tenerli.
Nelle stalle i “ciuit” (cavie, porcellini d’india) correvano come topi tra gli zoccoli del bestiame. I contadini li tenevano perché, secondo un vecchio detto (tutto da controllare) “rsanisu”, risanano la stalla!
In un angolo della stalla c’era una capra, spesso col capretto. Era stata presa in prestito da quel pastore che in autunno lasciava la montagna e distribuiva le sue capre nei nostri paesi. I contadini ne prendevano una-due per la stagione invernale e per compenso si tenevano il capretto che doveva nascere e il latte. A volte ne nascevano due, con tanta gioia per i bambini; a volte nessuno, allora il pastore lasciava una sommetta per il nutrimento dell’animale, ritirandolo a primavera.
Quanta invidia provavo io quando vedevo un mio amico venire con suo padre dal capraio e tornare a casa tenendo la capra con una cordicella. E quanto ho implorato mio padre che ne prendesse una anche per me, promettendo che l’avrei tenuta con cura! Ma la risposta era sempre negativa: «Dove la mettiamo?». Io a questo non pensavo.
Ma la scena più pittoresca ed emozionante era l’arrivo delle pecore. Giungevano numerose e fitte tra tanti belati. Avevano brucato l’erba che avevano trovato ai bordi della strada; mangiavano camminando. Due vispi cani le tenevano raccolte e sollecitavano quelle che indugiavano. Il gregge terminava con la solita pecora zoppa, che faticava a tenere il passo delle altre. Infine il carro tirato da un mulo. Un pastore stava all’inizio e uno alla fine della processione; donne e bimbi sul carro.
Appena giunti nel solito viale, in fondo alla piazza, la donna accendeva un fuocherello e vi metteva sopra una pentola. Gli uomini scaricavano gli agnellini e li consegnavano alle loro madri, che attendevano belando. Esse subito inspiegabilmente riconoscevano il loro piccolo e gli offrivano il latte.
L’agnellino, che era stato sul carro, perché ancora incapace di fare il tragitto a piedi, ora succhiava il suo pasto con avidità dimenando il codino, quella coda che poi gli sarebbe stata recisa da adulto.
Il mattino seguente, mentre il gregge era ancora al riposo, un pastore con una caratteristica cesta larga e piatta, andava a vendere le ricotte (sairass) nelle case e nei negozi. Poi, smobilitato l’accampamento, tutta la carovana riprendeva il cammino verso la residenza prestabilita in cui svernare.
Sarebbe stato allora possibile vedere una rappresentanza di tutti questi animali in una sola stalla: ai lati delle mucche ruminanti c’era la capra e a volte anche la pecora, sotto la mangiatoia correvano liberi i “ciuit”, e al muro stava appesa una gabbietta (spesso fatta in casa) col merlo o il cardellino…
Ora, nel maggiore dei casi non c’è neppure più la stalla; perché il locale è stato trasformato in rimessa, per ospitare il trattore o l’automobile.
È ormai un lontano ricordo il passaggio delle mucche nelle vie e nella piazza del paese: trainavano carichi o (più volentieri) andavano al pascolo.
Ora in piazza non c’è neppure più un cane; quando se ne vede uno, si cerca di sapere a chi è fuggito, per avvisare il padrone. Certo la piazza deve essere solo per le macchine!
Ancora più remoto è il ricordo di quel pittoresco e silenzioso raduno in piazza Don Bosco il 17 gennaio (S. Antonio) in attesa che il sacerdote giungesse con i paramenti religiosi per la benedizione e l’augurio a tutto il bestiame.
L’unica cosa consolante l’ha detta un mio vecchio amico con questa battuta: «Meno male che non ci sono più le pulci di allora…».
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