La Fucina Indietro Ritorna a Elenco Racconti Avanti
La Fucina ha il suo centro nella attuale piazzetta intitolata al Cardinal Cagliero, in quel breve spiazzo da cui inizia la via Aliberti, mentre via Mercadillo parte con una curva stretta e ripida.
Eppure, quando il centro vitale del paese lasciò la Fornaca, per parecchio tempo il centro del paese si fermò alla Fucina e precisamente in quel bivio.
Se la nobiltà di un borgo si misura dalla sua antichità, questo titolo, subito dopo la Fornaca, spetta alla Fucina. Questo borgo forse anticamente era la periferia sud del paese: vi era infatti l’Arco, che rappresentava la porta di ingresso del comune, il punto in cui era schierata la guardia, la sentinella, la difesa del paese.
L’antico Arco, che poggiava da un lato sul bastione delle prigioni (oggi scuola elementare) e dall’altro sulla casa sottostante, fu demolito nel 1953, quando fu eretto il nuovo bastione a sostegno della nuova scuola elementare. Ci fu a quel tempo chi giudicò affrettata, anzi errata la decisione di demolire l’Arco, ma non se ne fece un dramma.
Anche l’origine del nome Fucina ci è ignoto; se avesse significato italiano di officina, di bottega del fabbro, si ricorda a memoria d’uomo l’esistenza di almeno due piccole officine (benché pensiamo che questa origine sarebbe troppo semplicistica).
Una piccola bottega artigianale di fabbro era situata all’inizio di via Aliberti, in un cortiletto davanti alla casa natia di San Cafasso. Una seconda piccola officina funzionava in un locale oltre l’attuale scuola elementare, nella casa dei Turco. Il primo fabbro era chiamato il Mutin, il secondo era Vasin.
Alla Fucina c’era la farmacia, la tabaccheria, il negozio di tessuti, la macelleria, il cappellaio (allora il cappello era d’obbligo), la banca, l’esattoria, la pasticceria e il salone di Nìbale, ove a turno tutte le leve facevano le loro veglie danzanti. E c’era “l’acciugaio” che arrivava con la merce su un carrettino, indossava un grembiulino, unico suo attrezzo era un piccolo peso, e ripartiva con la merce avanzata lasciando sul ciottolato il sale e l’aroma delle acciughe.
Ma soprattutto c’era (e c’è) la scuola; il fatto è così importante che ne parliamo a parte. Pensate che si faceva addirittura il mercato in quella curva e in quel breve tratto tra il tabaccaio e l’Arco: i banchi poggiavano su cavalletti con gambe disuguali, e dovevano essere così per stare in piedi in quel dislivello.
E poi… velocemente, in questi ultimi anni, la Fucina perse gran parte del suo prestigio e il centro del paese continuò la sua corsa verso il borgo sottostante.
E sì, perché in questi ultimi anni il paese ha adottato un ritmo di vita così convulso e dinamico, con un respiro così grande, che il suo cuore e il suo motore non potevano essere né la Fucina, né tantomeno la Fornaca.
Non si intende parlare dell’attuale Scuola Materna statale, così ben diretta dall’ottima Giuseppina; si vuole ricordare il vecchio asilo infantile intitolato a Pescarmona. Pareva un formicaio: bimbi che correvano ovunque, in cortile, nel salone, nei corridoi.
I maschietti vestivano un grembiulino a quadretti azzurri, per le bambine erano rosa. I negozi di stoffa Andriano e Bertagna ne erano sempre provvisti.
All’inizio dell’anno c’era qualche lacrimuccia sul viso dei più piccoli, poi prevaleva la socievolezza, e la compagnia degli altri bambini consolava ogni tristezza.
Allora le suore ci attendevano all’entrata, ci liberavano del cappottino e della sciarpa e del “cavagnin” contenente la merenda e noi via di corsa verso gli amichetti per giocare.
A pranzo si mangiava il riso nelle scodelle piantate fino a metà nei fori circolari dei tavoli, perché non cadessero.
Dalle suore si imparavano le prime parole in italiano, le preghiere, i canti, brevi poesie e il comportamento tra compagni.
Quando il tempo lo permetteva, si giocava nel bel cortile all’ombra dei castani. Se un bambino trovava tra l’erba un insetto, un bruco, una farfallina, invitava gli altri all’osservazione della scoperta; ed eccoli chini, con le manine dietro la schiena, attenti come piccoli scienziati a scoprire che ci sono altre vite oltre gli animali della casa e gli uccelli dell’aria.
Prima del ritorno si consumava ciò che la mamma aveva preparato nel cestino con tanto amore e poca spesa.

Il Saggio - Almeno un paio di mesi prima della chiusura iniziava la preparazione del saggio. Era il piccolo e simpatico spettacolo di fine anno, che aveva come protagonisti i bimbi. Con tanta cura e pazienza le brave suore facevano imparare la parte a memoria a ogni piccolo artista, a furia di ripetere e provare, perché ovviamente essi non sapevano leggere. Capitava che ognuno imparava la parte propria e quella dei compagni e la imparava anche la mamma da casa. Così sul palco ognuno recitava forte le parole e diceva tra le labbra le parole dei suoi compagni di scena. E se uno si fermava incerto, c’era la mamma in platea che provvedeva a suggerire.
Insomma lo spettacolo era doppio: uno rappresentato dal piccolo che parlava e uno da chi gli stava intorno.
Anche nei canti c’era quello che metteva più foga nella voce, allora la nota diventava più acuta e nasceva una stonatura; per altro molto applaudita. L’esito del saggio era scontato: orgogliosi e felici i bimbi, orgogliose e felici le mamme spettatrici. E le suore finalmente si riposavano. Ma non del tutto, perché l’asilo era l’oratorio femminile, frequentato tutto l’anno da ragazze signorine che imparavano cucito e ricamo.

Il Contrasto - La casa di riposo, chiamata ospedale, confinava con l’asilo. Ospitava pochi vecchi, per lo più invalidi. Passavano ore seduti alle finestre del primo piano o alla veranda per osservare i bimbi nel cortile sottostante.
Nei primi c’era la vita passata, colma di ricordi, negli altri la vita futura. Il tramonto e l’alba radiosa. Il tardo autunno, mesto e nebbioso e la primavera nascente e festosa.
Che scena contrastante per chi ne osservava i due protagonisti! La vecchietta con il mento appoggiato alla mano posata sul davanzale e la bimbetta che saltava agile nel gioco della “settimana”. Eppure anche la vecchietta era passata per questa età.
«È la ruota che gira» come dice una popolare espressione castelnovese e non solo castelnovese.
Il borgo detto del Mulino ha il suo centro nell’incrocio a “T” formato dalle vie Torino e Chivasso; presso il ristorante Monferrato. Il nome sopravvive ancora, ma il mulino non c’è più. Come tutti i vecchi mulini, anche questo era sorto accanto ad un corso d’acqua, che ne permetteva il funzionamento e di cui ora non c’è più traccia.
Il corso d’acqua si era ricavato con una deviazione e del rio Traversa e passava appunto nel tratto che ora si chiama via Chivasso per entrare nel mulino e rientrare poco dopo nel rio. Ecco perché la via in quel tratto è così ampia, e vi sono ora dei larghi marciapiedi. Son certo che i nostri antenati non avrebbero certamente progettato di lasciare una sede così grande per una strada.
La Fucina

Per molti anni fu l’unico mulino del capoluogo, perciò era frequentatissimo. In quell’ampio cortile selciato sostavano ogni giorno, dal primo mattino fino a sera, tanti carri di contadini che giungevano recando sacchi di grano e ripartivano con la loro farina e la loro crusca. Stavano in attesa del loro turno di macinazione; le mucche aggiogate al carro consumavano la provvista di fieno e ruminavano quanto avevano ingerito; intanto il padrone seguiva tutto l’iter della trasformazione del proprio prodotto.
Era un’operazione che richiedeva il suo tempo, ma per il contadino era l’unico modo per avere la farina bianca da portare al panettiere per avere la farina di meliga per il bestiame e per la polenta.
E poi… i tempi stavano cambiando e anche per il mulino si trattava di rinnovarsi o sparire. È la legge dura del commercio. E si estinse; tanto più che nel frattempo un certo Carossa da Passerano era venuto a impiantare un nuovo mulino dall’altra parte del paese.
Ma torniamo al borgo. Pensiamo sia stata una scelta felice l’installazione delle sedi industriali tra il rio e il cimitero. Sarà stata un’esigenza, ma e pur vero storicamente che il Mulino ha sempre avuto la vocazione industriale e commerciale. Ed ora in quella zona si può constatare un pullulare di officine, laboratori e depositi commerciali.
Al Mulino da lungo tempo c’era il fabbro, il falegname, più di un conducente, e c’era l’unica latteria con piccolo caseificio. Vi è poi sorta l’industria del ghiaccio, dell’acqua gasata, la lavorazione dei vimini, il ristorante; ed oggi vi predomina l’industria meccanica.
Diciamo brevemente qualcosa di queste attività

IL GHIACCIO

Di frigoriferi non si parlava ancora! C’era però già il desiderio ogni estate di avere un po’ di ghiaccio per difendersi dal gran caldo e per conservare i cibi.
La mamma ci dava una borsa e qualche soldino; si andava al Mulino, nel cortile dei Magnone; si scendeva qualche gradino là in fondo e ci si trovava in un locale freddo e umido; c’erano macchine misteriose e tubi rivestiti di ghiaccio. L’operaio incaricato della vendita impugnava un ferro e con esso colpiva il blocco di ghiaccio esposto su un tavolo e ne staccava un pezzo di grandezza equivalente agli spiccioli che offrivamo. E si riportava alla mamma la borsa gocciolante con l’insolito contenuto, che essa usava subito. Questa spesa era fatta nel periodo delle feste (estive, naturalmente) per conservare i piatti preparati nell’occasione.

LA LATTERIA

Era una piccola botteguccia caratteristica che funzionava solo di sera in un piccolo locale oltre il mulino. L’arredamento consisteva in due panche appoggiate alle pareti, due sedie, un peso, qualche bidoncino… I gestori erano gli anziani coniugi Villata: lui Carlo alto e robusto, riceveva le contadine che portavano il latte appena munto, lo pesava, scriveva su un libretto e vuotava il secchio in un recipiente più grande; lei premurosa prendeva i “barachin” degli acquirenti, chiedeva quanto se ne voleva e lo serviva con una misura apposita. Accadeva raramente che giungendo nella botteguccia si trovasse subito latte disponibile; era invece normale sederci su una delle panche con i soldi in una mano e il pentolino dall’altra; e si stava lì tranquilli in attesa che giungesse la contadina con il secchio e ci fosse tanto latte da soddisfare l’esigenza.
Si può dire che nella piccola bottega ci fosse l’appuntamento e lo scambio diretto tra il produttore e il consumatore. Ma la vera provvista di latte la facevano i figli Geniu e Ricu, che ogni mattina dell’anno (compreso Natale e Pasqua) andavano col biroccio l’uno verso Morialdo e l’altro a Nevissano a caricare il latte dei cascinali, facendo tappa nei ritrovi fissi. Geniu ha ripetuto tante volte che ci era andato lo stesso mattino del suo matrimonio. Era un dovere, un rito da compiere assolutamente.
Cose del tempo passato…, ma non da molto, perché quei due anziani conuigi Villata sono i nonni degli attuali Franco, Dario, Carlo, Vittorio, Pino, Gino… E questo è il caso sorprendente, nessuno di essi tratta il latte. È sparito il mulino, la latteria, il burro rinomato… e sono sorte al loro posto le attuali officine e laboratori.

I CAVAGNÈ

Il nome cavagnè ha origine da cavagna (= cesta) ma credo che di ceste non ne abbiano mai fatto. Sarebbe stato assai più appropriato il nome di «cadreghè», perché le sedie sono l’articolo più abbondantemente fabbricato da quei lavoratori.
Quell’attività dava occupazione a parecchi giovani e ragazze e non poche famiglie traevano sostentamento dal lavoro nei laboratori Picollo. Ciò avviene tuttora a Castelnuovo, anche se il nome non è più quello, anche se i laboratori non hanno più tutti la sede al Mulino. Il motivo è che al Mulino lo spazio è limitato e non può ospitare tutte le industrie nate nel borgo. Alcune hanno lasciato il borgo natio per spostarsi in luoghi più aperti e agevoli, adatti comunque alla loro espansione, in luoghi anche più soleggiati, perché il Mulino è stato soprannominato «il borgo freddo». È ancora da stabilire se il soprannome ha avuto origine dalla posizione poco solatia o dal ghiaccio ivi prodotto.

…DALLA MUTINA

Pochi Castelnovesi direbbero «vado a pranzo al ristorante Monferrato», molto più spesso si sente dire «vado dalla Mutina», anche se la signora così denominata è scomparsa da parecchi anni. Risaliamo all’origine di questo soprannome, che è anche la storia del ristorante. In un cortiletto, invero poco felice, lavorava un modesto artigiano, piccolo, bruno, in un fucina anch’essa annerita. Di nome Musso, era chiamato il Mutin.
Era padre di tre figli, una femmina e due maschi, uno di questi, Domenico fu addiritura vicesindaco e, per un po’di tempo, sindaco di Castelnuovo.
La sorella Maria si unì in Matrimonio con Mario Montefameglio. Era questi un rinomato e compito cuoco e cameriere, che svolgeva la sua attività in prevalenza in centri di villeggiatura alpina. Essendo originario del borgo Mulino, non gli mancava l’estro e la vocazione al commercio. Così per sua iniziativa nacque il ristorante Monferrato, in un locale nuovo da lui costruito.
Per qualche tempo Mario continuò a prestare la sua opera nei ristoranti in cui era conosciuto e assai stimato, lasciando nel nuovo ristorante di Castelnuovo la sua Maria, che ebbe in eredità dal padre il soprannome di Mutina.
Il locale ebbe subito fortuna e successo, godeva fama di avere una cucina e un servizio di livello eccellente, con posti sempre contesi da una clientela affezionata.
Rinnomati erano i gelati confezionati in casa e serviti in caratteristici bicchieri. Per i castelnovesi era una gradita passeggiata estiva andare fino al Mulino e gustare il gelato della Mutina. La maggior affluenza al ristorante si aveva nel giorno della festa del Mulino, quando i borghi del paese una volta all’anno facevano festeggiamenti nella propria contrada e le frazioni nei propri prati. Dopo i Montefameglio nel ristorante Monferrato si succedettero parecchi gestori, tutti degni della fama e della rinomanza della Mutina.
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